La pratica dell’anatocismo ha generato ampie discussioni. Oltre che ripetuti interventi normativi. Fino a un’impostazione generale (forse) finale.
Interessi calcolati sugli… interessi. Un meccanismo che appare quasi crudele ma che, in ambito finanziario, ha un nome tutto suo. A un primo ascolto, un termine quasi di rimando medico.
Si tratta dell’anatocismo, ossia la pratica bancaria (espressamente disciplinata dall’ordinamento giuridico italiano) di applicare il calcolo di un interesse a interessi già di per sé applicati su un debito contratto. Oppure su un conto andato in rosso. Il che, come intuibile, aumenta a dismisura, proporzionalmente agli interessi non saldati, il totale da pagare al creditore. Un meccanismo che, in passato, non ha mancato di incappare in contenziosi che hanno generato un’ampia letteratura giurisprudenziale in merito. Anche perché, come detto, l’anatocismo è regolamento da precisi passaggi normativi, che ne limitano l’applicabilità a una manciata di casistiche ben documentate.
Già nel 2004, la Corte di Cassazione fu chiamata a fissare alcuni paletti. Uno step fondamentale, dal momento che fu proprio allora che la Legge si inserì effettivamente all’interno del dibattito sulla validità dell’anatocismo, consentendone l’adopero solo a fronte di circostanze specifiche. Non è un caso che, per quanto siano trascorsi quasi vent’anni dall’intervento della Cassazione, alcuni contenziosi non siano stati ancora del tutto risolti. Questo perché, nonostante un divieto espresso da parte dell’articolo 1283 del Codice Civile, in ambito bancario il calcolo di interessi sugli interessi è stato utilizzato, muovendosi entro il cavillo normativo degli usi contrari. Un loop pressoché infinito.
Anatocismo, interessi sugli interessi: cosa dice la normativa vigente
Il meccanismo di applicazione è piuttosto semplice. Su un conto corrente bancario in rosso, ad esempio, qualora la cifra accanto al segno “meno” fosse di 1.000 euro, con interessi applicati in prima istanza pari a 100, il calcolo successivo sarebbe effettuato sulla cifra base più il primo interesse applicato. In pratica, di volta in volta, il debito crescerebbe con una maggiorazione costante, proporzionale agli interessi maturati sulla somma. Il primo giro di boa è arrivato nel 1999, con il D. Lgs. 342 del 4 agosto.
I passaggi normativi
Un passaggio normativo che ha tentato di tracciare un confine fra la legittimità dell’uso e gli ambiti in cui l’anatocismo non è consentito. Fermo restando che qualsiasi applicazione della partica al di fuori dell’ambito normativo del 1283 costituisce un illecito civile. L’unico vincolo reale riguarda l’applicazione del calcolo degli interessi, che sarà legale solo se sulla medesima periodicità sia sui conti correnti con saldi negativi che attivi.
In questo senso, però, fu decisivo il passaggio del 2004: la sentenza del 4 novembre, infatti, definì illecite tutte le pratiche anatocistiche, in quanto in violazione del suddetto articolo del Codice Civile. Il Testo unico bancario è stato modificato in tal senso nel 2013, con eliminazione definitiva dell’anatocismo a partire dall’1 gennaio 2014. Fino al 2016, con un ultimo giro di modifiche volto a regolare una nuova forma di applicazione della pratica subordinata a un espresso consenso del cliente. Il che significa, in sostanza, che il meccanismo potrà essere applicato solo se espressamente indicato nel contratto fra banca e correntista. E, peraltro, solo con un calcolo annuale (non più trimestrale né tantomeno mensile). Allo stato attuale, gli interessi passivi non dovranno produrne altri. Inoltre, interessi attivi e passivi andranno calcolati con periodicità speculare.