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Da Pong a una fabbrica d’oro: ecco quanto fruttano i videogiochi

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Damiano Mattana

Il 28 novembre 1972 Altari lanciava Pong, capostipite dei videogiochi. E dell’industria che ne nascerà. Una delle più remunerative al mondo.

Cinquant’anni esatti, giorno più giorno meno. Trascorsi da un momento storico in cui la televisione era ormai un media a portata di mano per la maggior parte delle famiglie, quanto bastava per concentrare le attenzioni sulle innovazioni tecnologiche su altri lidi.

Eco di Milano

Lidi ludici naturalmente. Ai nativi digitali suonerà strano ma c’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui la possibilità di cimentarsi in videogiochi non era così immediata. In cui le stesse console erano merce rara e, perlopiù, strumenti in mano ai programmatori. Al di fuori dai laboratori informatici delle prime aziende che iniziavano a cimentarsi nella distribuzione di videogiochi su larga scala, restavano le cabine da uno, massimo due joystick. Altro termine che, a inizio anni Settanta, nel nostro Paese non possedeva un’accezione così immediata. Sarebbero bastati pochi anni però. Per passare dai cabinati delle sale giochi e le grafiche essenziali di allora alle console smart e alle interfacce 3D è stato sufficiente un ventennio. Forse persino meno considerando il passaggio epocale delle grafiche punta e clicca a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta.

Con il nuovo Millennio, l’industria dei videogiochi diventerà un’industria dorata. Forse persino lontana dalla logica di sperimentazione e intrattenimento che ne aveva animato i primordi. Forse le aspettative erano minori una ventina d’anni fa, quando l’iper-realismo dei tempi moderni appariva come un dettaglio superfluo rispetto alla volontà di trascorrere semplicemente un’ora di svago fra rompicapo divertenti, missioni più o meno cervellotiche e schermate colorate. È chiaro che ciò che non si conosce gode sempre di un certo fascino. E nel 1972, prima delle grafiche a scorrimento orizzontale e dello Scumm, bastavano una schermata nera e la riproduzione virtuale di una pallina a far sgranare gli occhi

Dal fenomeno Pong all’iper-realismo del Duemilaventi: quanto vale l’industria dei videogiochi

“Pong” non fu un nome casuale. Il capostipite (anche se non il primo in assoluto) della prolifica stirpe dei videogiochi non era altro che la riproduzione di una partita di ping pong, in una grafica ultra essenziale che, per certi versi, sarà richiamata dal sistema operativo predecessore di Windows, MS Dos. Schermo nero, barre bianche a raffigurare le racchette con movenze dall’alto in basso (e viceversa), segnapunti e un suono del tutto simile all’onomatopea che ha dato il nome alla creatura della casa Atari. Occhio però, perché quello che oggi potrebbe apparire un rudimentale tentativo di fondere svago e informatica fu in realtà il martello che abbatté il muro della contemporaneità. L’ingegnere Al Alcorn, a digiuno di videogiochi fino a quel momento, puntò proprio sull’essenzialità per ottenere il miglior risultato possibile.

L’ascesa di Pong

Ma c’è anche un altro motivo per il quale “Pong” non va sottovalutato. Fu infatti il primo videogioco in assoluto a sfruttare le potenzialità della tv come veicolo di riproduzione grafica e sonora. Una rivoluzione per un’epoca in cui il televisore, raggiunto il colore e l’innovazione del telecomando, sembrava aver raggiunto il massimo dei suoi standard. L’intuizione finale fu la monetizzazione: un quarto di dollaro per giocarci in un cabinato standard della sala giochi, anche in una versione particolare, giocabile coi piedi. Il vero e proprio inizio di un’epopea destinata a cambiare per sempre il rapporto fra giovani e tecnologia. Chiaramente, negli anni Settanta l’offerta di videogiochi era drasticamente più bassa rispetto a quella moderna. E lo stesso “Pong” non era poi così semplice come appariva, visto che la velocità della partita aumentava e la barra/racchetta si restringeva, rendendo sempre più difficile colpire la pallina.

Da scoperta a industria

E mentre i ragazzi dei Settanta si cimentavano con il primo videogioco effettivamente accessibile a chiunque, i programmatori iniziarono la loro scalata all’Olimpo: bastò poco perché i quarti di dollaro diventassero più di quanti la cabina riuscisse a contenerne, rendendo necessario lo sviluppo, parallelamente ai videogiochi, di console sulle quali riprodurli. Già nel 1975 Atari distribuì la prima versione di “Pong” giocabile in casa, tramite un dispositivo a batteria precursore delle più moderne console.

Un’altra rivoluzione, che avrebbe radicalmente modificato il rapporto fra la tv e le masse, creando un livello di interazione mai visto fino ad allora. Il tutto tramite una logica che, da pura sperimentazione, diventerà marketing in uno schiocco di dita. Soprattutto nel momento in cui inizierà l’ascesa della giapponese Nintendo e della successiva Sony, mamma della PlayStation. A oggi, il comparto dei videogiochi fattura (parecchio) più di quello cinematografico: ben 160 miliardi dollari al 2020 (dati Statista). Il passo dalla scoperta all’industria, in fondo, è sempre stato breve.

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Damiano Mattana

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