La fine del Governo Draghi ha posticipato il dibattito sulle pensioni. Ma il 2023 incombe e le risposte iniziano a diventare urgenti.
Col pressing alto sulla Manovra, da approvare tassativamente entro la fine dell’anno per evitare l’incombenza dell’esercizio provvisorio, alcuni temi sembrano rimasti leggermente in disparte.
E questo nonostante la loro centralità, non solo per quel che riguarda la gestione delle risorse finanziarie ma anche per il welfare dei cittadini. È il caso delle pensioni, a lungo argomento centrale del dibattito pubblico e politico, poi scivolato qualche posizione indietro quando è apparso chiaro il tramonto del Governo Draghi e l’impossibilità di consegnare agli italiani una riforma del sistema pensionistico in grado di sostituire in toto le misure provvisorie. Un dettaglio è meglio chiarirlo subito: per vedere una vera e propria novità nel quadro pensioni ci sarà da aspettare perlomeno fino al 2024. I dodici mesi che verranno, infatti, avranno l’onere di accompagnare il percorso verso il nuovo assetto, molto probabilmente poggiando il quadro sulla proroga di strumenti già esistenti.
Il Governo Meloni ha posto la deadline a 5 anni. Ossia, l’intera durata della legislatura. Con l’obiettivo di arrivare a quel momento con tutti i provvedimenti arrivati a dama. Chiaramente, per quel che riguarda le pensioni ci sarà da lavorare in modo decisamente più celere. Qualche risposta dovrà necessariamente arrivare entro i prossimi mesi, se non altro per determinare le possibilità reali di andare in pensione per quei contribuenti che matureranno a breve i requisiti per incassare l’assegno. Di sicuro, resterà la misura dell’Ape Sociale, con pensionamento accordato con 36 anni di contributi per chi ha svolto mansioni gravose o usuranti. Con requisito anagrafico minimo di 63 anni.
La domanda reale riguarda coloro che, maturando i quarant’anni agognati di contributi nel 2023, dovranno accedere alla propria pensione. Chiaramente, la misura dell’Ape Sociale sarà disponibile, qualora non fosse stata utilizzata precedentemente. Secondo quanto emerso negli ultimi mesi, o quantomeno secondo quanto deducibile dalle scorie del dibattito sul rimpiazzo di Quota 102, la possibilità che venga adottata Quota 41 è abbastanza concreta. Quindi, accesso alla pensione con quarantuno anni di contributi versati, senza tener conto dell’età anagrafica. Niente di concreto per il momento ma perlomeno il canale sul quale sembra orientarsi la discussione in questa fase. Quota 41 era una proposta a marca leghista ma potrebbe essere adottata dalla maggioranza come ennesima soluzione tampone, sempre che non arrivi una proroga last minute (ma comunque improbabile) di Quota 102.
Il passaggio a Quota 41 sarebbe una sorta di compromesso fra la pensione ordinaria e quella anticipata. Se non altro per la possibilità di omettere il requisito, altrimenti essenziale, dell’anagrafica. Potranno infatti accedere alle pensioni tutti coloro che avranno maturato gli anni necessari di contribuzione, glissando sui limiti imposti dai versamenti effettuati con sistemi differenti da quello corrente (contributivo, appunto). Il ragionamento è comunque nell’ottica di una riforma datata all’anno prossimo (2024). Considerando che per ora, e per tutto il 2023, il limite per la pensione anticipata ordinaria è fissato a 42 anni e 10 mesi di contributi (per gli uomini) e 41 anni e 10 mesi (donne), si andrebbe incontro a una decurtazione di un anno e 10 mesi complessivi. Altro ragionamento, quello sull’ipotesi della pensione in due quote. Una proposta avanzata dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, con quota contributiva a 63 anni e retributiva a 67. Programmi che, per ora, non vanno oltre la fase di discussione. Nella speranza che il 2023 non comporti altri cataclismi politici.
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