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Lavoro

Quando lavorare troppo diventa una droga e alcuni consigli per uscirne

Published by
Emiliano Fumaneri

Lavorare troppo può essere un modo – spesso negato – per rispondere a un problema che andrebbe affrontato in altra maniera.

Lo stakanovismo però può portare a una vera e propria dipendenza che finisce per peggiorare notevolmente la qualità della nostra vita. Si può fare qualcosa? Sì, ma il primo passo, come sempre, è quello di rendersi conto del problema.

Eco di Milano

L’immagine del lavoratore instancabile, sempre in servizio permanente e effettivo, efficiente e performante accomuna molte esperienze politiche del XX secolo: a cominciare dall’esaltazione del minatore Stakanov come “lavoratore modello” da parte della propaganda sovietica (al punto da forgiare la proverbiale espressione di “stakanovismo“, quando non una vera e propria ideologia del superlavoro: il produttivismo). Ma anche di Mussolini la propaganda fascista diceva che lavorasse sempre e non dormisse mai (o quasi). Chiudere gli occhi una decina di minuti gli bastava – si diceva – per tornare subito al lavoro, fresco come una rosa.

Pure Winston Churchill, il campione della democrazia, era uno stakanovista che lavorava 18 ore giornaliere, riuscendo perfino a trovare il tempo, durante il suo mandato da premier britannico, per scrivere decine di libri (alla fine della vita saranno 43, spalmati su 72 volumi). Il problema è che Churchill soffriva anche di quello che chiamava il suo “black dog”, il cane nero. Che altro non era se non una depressione che lo paralizzava in uno stato di cupezza estrema.

C’è chi sostiene che la depressione del leggendario primo ministro del Regno Unito fosse bipolare e che la sua straordinaria produttività avvenisse durante le fasi di mania. Ma qualche biografo spiega le cose in maniera differente: lo stakanovismo churchilliano era sostanzialmente un modo per distrarsi dalle sue sofferenze. Insomma, si distraeva attraverso il lavoro.

Il lavoro come droga?

Una lettura forzata? Non è detto, dato che i ricercatori oggi considerano lo stakanovismo una dipendenza comune che sorge come risposta a un disagio. E che finisce, come accade regolarmente in molte dipendenze, per rivelarsi un rimedio peggiore del male che vorrebbe alleviare, dato che non fa altro che peggiorarlo e renderlo più grave.

Si parla addirittura di un 10 per cento della popolazione degli Stati Uniti (parliamo di decine di milioni di persone) che “autocura” i propri problemi emotivi e le sofferenze con sostanze (alcol e droghe tipicamente) da cui le persone finiscono per diventare dipendenti. Ma come suggerivamo all’inizio, questa non è l’unica “automedicazione”. Sono ormai molte le prove che indicano come le persone cerchino di “curare” le loro ansie e depressioni anche col lavoro.

Lo stakanovismo come terapia, o qualcosa del genere. Comunque sia, si tratta di una soluzione ben poco “risolutiva”. Diversi studi mostrano infatti l’esistenza di una forte correlazione tra lo stakanovismo e i sintomi di veri e propri disturbi psichiatrici (ansia e depressione in particolare). Tanto che l’ipotesi comune è quella che sia il lavoro compulsivo a produrre questo genere di disturbi. Di recente però alcuni psicologi hanno sostenuto la tesi opposta: ovvero che le persone provino a “curare” depressione e ansia sovraccaricandosi di un lavoro. Il rapporto tra surplus di lavoro emerge ad esempio da uno studio apparso nel 2016 sulla rivista scientifica Plos One.

“Autocurarsi” col lavoro: quando il rimedio peggiora il male

Se questa ipotesi dovesse essere confermata troverebbe spiegazione, almeno in parte, il fatto che nel periodo di stress, solitudine e ansia dei primi lockdown così tante persone abbiano aumentato le ore di lavoro. I dati dei Cdc americani (i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie) a fine maggio 2020 riportavano risultati davvero scioccanti: ovvero che quasi un quarto degli adulti in Usa aveva riferito di sintomi di depressione (contro il 6,5% del 2019). Si può pensare che tanti di questi lavoratori si fossero “automedicati” aumentando la quantità del proprio lavoro per sentirsi “impegnati” e “produttivi”.

Il lavoro come una specie di droga? Qualcosa del genere. Anche perché i comportamenti stakanovisti – a differenza di altre dipendenze – vengono socialmente premiati. Ad esempio con una promozione, come può facilmente capitare a chi lavora 16 ore al giorno.

A un prezzo molto caro però, come accade di regola nelle dipendenze nate da “autocure”. Un prezzo che si chiama esaurimento (burnout), depressione, stress da lavoro, conflitto tra vita lavorativa e vita privata, ecc.

Senza contare che a lato della dipendenza primaria dello stakanovismo possono fiorire, come tante piante avvelenate, anche delle dipendenze secondarie. Ad esempio le dipendenze da droga, alcol e pornografia, a loro volta usate per “automedicare” la dipendenza primaria. Contribuendo soltanto a peggiorare le cose.

Tre suggerimenti per tenere a freno il “black dog” del superlavoro

Come uscire da questo tunnel? Ashley Whillans, della Harvard Business School, suggerisce tre pratiche per riprendersi il proprio tempo e combattere lo stakanovismo.

  1. Fare una verifica di come abbiamo usato il nostro tempo: il consiglio pratico è quello di annotare ogni giorno le nostre attività principali (lavoro, tempo libero, commissioni, ecc.), il tempo che abbiamo dedicato a ognuna di esse e come ci siamo sentiti. Infine sarà buona cosa anche annotarsi quali attività ci abbiano reso l’umore più positivo. Un modo semplice per tenere sotto controllo quanto stiamo lavorando (aiutandoci a non negare la realtà, dato che spesso lo stakanovista tende a non voler ammettere il suo problema) e cosa ci piace fare quando non lavoriamo.
  2. Pianificare i nostri tempi morti: lo stakanovista tende a sottostimare le attività extralavorative, lasciando loro i ritagli del tempo lavorativo. Ecco perché invece sarà cosa utile ritagliare del tempo per le attività fuori dal lavoro.
  3. Programmare il nostro tempo libero: i cosiddetti “tempi morti” non vanno lasciati troppo liberi. Questo per un semplice motivo: un tempo poco (o per nulla) strutturato è più un invito, non sapendo bene che fare, a tornare di nuovo al lavoro o a dedicarsi ad attività passive, poco salutari per il nostro benessere psicologico, come guardare la tv o i social network. Meglio perciò avere una lista di cose da fare secondo un ordine di priorità. Pianificare anche i passatempi più attivi (come telefonare a un amico, fare una passeggiata, dedicarci a un hobby, andare in palestra, ecc.) è la cosa migliore da fare. A patto naturalmente di rispettare il programma.

Chi ha provato a mettere in pratica questi tre semplici suggerimenti sostiene che la sua vita è cambiata decisamente in meglio. Al fondo resta però un problema da affrontare con l’aiuto di un professionista per cercare di risolvere i problemi che ci hanno spinti a usare il lavoro eccessivo come forma di distrazione, quando non di “cura”.

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Emiliano Fumaneri

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